Parla come mangi.

La traduzione italiana è del  2006, ma la scrittrice statunitense,  Elizabeth Gilbert,  aveva pubblicato l’anno prima il suo romanzo. “Mangia, prega, ama” il titolo. La protagonista della storia, Liz, così si presenta:” sono un’americana con una professione, ho trentaquattro anni e sono appena uscita da un matrimonio fallito e da un divorzio devastante e interminabile.. Dopo tante disavventure mi sento triste, fragile, vecchia di settemila anni”.

Il rimedio alla sua crisi esistenziale, un viaggio lontano dalla patria, un viaggio mirato in Italia, India e Indonesia. “Quattro mesi per ciascuno. Un anno in tutto… Per me non erano tanto luoghi da esplorare, altri viaggiatori l’avevano fatto prima di me; quello che mi interessava era indagare un aspetto di me stessa sullo sfondo di ciascun Paese. Volevo imparare l’arte del piacere in Italia, l’arte della devozione in India e, in Indonesia, l’arte di bilanciare l’uno e l’altra”.

Va detto subito che l’arte del piacere in Italia è riferito alla cucina. “Parla come mangi” è posto come incipit al capitolo dell’avventura italiana. Residenza a Roma, ma puntate brevi in altre città della penisola.

Le pagine 93-97 sono dedicate a Napoli. E ci danno della città l’immagine percepita da una non napoletana e non italiana.

Liz fa una telefonata all’amica Sofie, un’americana conosciuta a Roma, e sono in treno per Napoli a mangiare la pizza. La città: ” Mi è piaciuta subito. Frenetica, aspra, rumorosa, sporca, incasinata città. Un gigantesco formicaio con tutto l’esotismo di un bazar mediorientale e in più un tocco di voodoo stile New Orleans. Un esaltato, pericoloso e allegro manicomio. La mia amica Wade è venuta a Napoli nel 1970 ed è stata derubata. In un museo”.

“La città è decorata da festoni di biancheria che penzolano nei vicoli tra una finestra e quella di fronte, canottiere e reggipetto appena lavati che svolazzano al vento come bandiere da preghiera tibetane.

Non c’è strada a Napoli in cui non si veda un monello in pantaloni corti e calze una diversa dall’altra che strilla rivolto a un altro monello. Non c’è casa, in questa città, che non abbia alla finestra  una vecchia, ingobbita dagli anni, intenta a osservare sospettosa la strada di sotto”.

” L’accento napoletano è un’amichevole pacca sull’orecchio. Usano tutti ancora il dialetto, qui, e hanno un vocabolario fluido e mutevole. Ho scoperto che in Italia sono proprio i napoletani quelli che io capisco meglio degli altri. Perché? Ma perché vogliono essere capiti, accidenti. Parlano a voce alta e con enfasi, e se non è chiaro quello che dicono con la bocca, lo si può sempre dedurre dai gesti. Come quando quella scolaretta punk, seduta in sella al motorino,, dietro a un ragazzino più grande di lei, sfrecciandomi accanto mi ha mostrato il dito medio con un gran sorriso”.

La pizza: “mi piace talmente tanto che nel mio delirio, ho la certezza di piacere anche io a lei. Anzi, tra me e la mia pizza sta nascendo uno stretto rapporto personale, quasi una storia d’amore”.

In tutte queste pagine non c’è un accenno alla delinquenza organizzata; cosa che invece fa la scrittrice parlando della Sicilia. E giunge a questa considerazione “Ogni città ha una parola che la definisce e che serve a identificare chi la abita… E’ la parola della città. Se la tua parola personale non coincide con la parola della città, vuol dire che non ne fai parte”.

La parola di Roma è Sesso. In Vaticano: Potere. A New York: Realizzare. La parola di Napoli è Lotta. Per capire l’Italia bisogna venire a Napoli.

Virgilio Iandiorio

Parla come mangi.ultima modifica: 2021-12-12T23:07:28+01:00da manphry
Reposta per primo quest’articolo