A tavola con gli antichi

E’ diventato slogan, spot pubblicitario, insegna di noti ristoranti il sapore dell’antico. Quasi una sorta di riflesso condizionato in un’epoca, la nostra, dove il legame con il passato è ormai quasi impercettibile, dove si discute di prodotti transgenici che impallidiscono al confronto con la supposta genuinità di quelli di una volta. E sulle nostre tavole ben fornite di ogni ben di Dio chi sa quali alimenti manipolati giungono e giungeranno!

Quando il passato diventa irraggiungibile, quando la distanza  tra noi e quelli che furono diventa incolmabile, ecco che questo, il passato, si colora di nostalgie, di ricordi e di miti.Come mangiavano e cosa mangiavano gli antichi Irpini ? Tentiamo, senza l’ausilio delle risorse dell’informatica, di effettuare un viaggio a ritroso nel tempo cercando di ricostruire, con le testimonianze scritte e i materiali che ci hanno lasciato, le mense dei nostri antenati, se non di famiglia almeno di luogo di nascita, quando Roma era ancora repubblicana.

Gli antichi irpini ormai romanizzati avevano gusti culinari se non uguali certamente simili, con buona approssimazione, a quelli che il poeta Orazio  descrive  qua e là nelle sue opere. Il poeta, infatti, essendo nato a Venosa e a lungo vissuto nella Sabina, conosceva bene le abitudini alimentari delle popolazioni delle zone dell’Appennino Campano-Lucano.

Cominciamo dalla tavola su cui veniva servito il pranzo. Quelli che se lo potevano permettere avevano tavolo di legno pregiato (di acero per esempio), tovaglia decente, tovaglioli nitidi, bicchieri di vetro e piatti tersi come specchi. Per la gente meno abbiente, tavola di pietra, ciotole, bicchieri di terracotta, rozza saliera, ampolla, piatto largo (per metterci un poco di tutto), stoviglie di produzione campana, quelle a buon mercato. 

Sulle loro tavole non mancavano mai legumi e ortaggi: ceci, fave ben unti in grasso lardo, lapazio, porri, malva, cavoli conditi con olio e aceto. I cavoli migliori erano quelli coltivati nei campi “asciutti”, quelli coltivati negli orti irrigui erano insipidi.

Uova sode bislunghe, che erano più gustose di quelle rotonde, si accompagnavano alle olive nere: le olive migliori erano quelle di Venafro, ma anche la produzione irpina non era malvagia; anzi, come attestano le presse di pietra ritrovate nel territoriodi diversi comuni;  olio si produceva abbastanza in diverse località della provincia. E a parere degli esperti, come oggi, pare proprio che sia del migliore.

Il primo piatto era costituito  da zampetto di maiale affumicato, da salsicce, ma anche da vile trippa. Si potevano avere anche pollastri e capretti, lessati o arrostiti.

 

Non mancava mai la frutta di stagione, oppure l’uva passa, le noci e i fichi secchi. Il pane quando era di quello buono veramente, conveniva farsene una provvista. Come accadeva per  quei viaggiatori  che attraversavano gli oppida irpini al confine con la Daunia.

 

Se capitava in casa un ospite inatteso non c’era di meglio che offrirgli prosciutto e salsicce. Se il prosciutto era di cinghiale , si faceva una “bella figura”. Anche perché il cinghiale allevato in zona non era da meno di quello più rinomato allevato in Umbria; entrambi si nutrivano di ghiande d’elce e di quercia.

Qualora si disponeva di cacciagione, era preferibile servire lepre in umido, meglio solo le spalle; andavano anche bene tordi e gru. Alla cacciagione ben si accompagnavano delle salse. Il poeta di Venosa ce ne indica due in particolare; ingredienti della prima:  olio fresco, vino denso e salamoia; per la seconda: erbe trite, zafferano (se di Corico in Cilicia, una sciccheria) e olio (meglio quello di Venafro).

I contorni: funghi prataioli, radici, lattughe e ravanelli piccanti. La frutta: in estate le more nere una delizia a fine pranzo; bene anche le mele (le più rinomate erano quelle della Valle Tiburtina e del Piceno, ma non va sottaciuto che Virgilio chiama “malifera” la città di Abella .E poi uva rossa, pere, prugne rosse. Nella stagione invernale uva passa, noci, nocciole (le avellane) e fichi secchi.

Il vino non poteva mai mancare sulla tavola, considerato che spesso l’acqua non scaturiva sempre da sorgenti pure, ma veniva attinta da pozzi. I vini di “importazione” erano uno status simbol e recavano i nomi di Falerno, Cecubo, Chio, Albano. I vini nostrani non erano da meno per qualità: il novello è ottimo, per non parlare dei rossi (se pensiamo al Taurasi di oggi). I vini bianchi si accompagnavano con la frutta secca (e il palato va subito al Fiano). Una squisitezza il vino affumicato in orcioli di terracotta lasciati accanto alla canna fumaria per un certo periodo di tempo. Ci si accontentava anche di vino leggero, piuttosto che di uno robusto, quando a pranzo si era da soli o semplicemente per calmare la sete.

 

Non mancava sulla mensa il pesce di fiume, perché il territorio provinciale anche se non ha corsi d’acqua di grossa portata, ne ha comunque molti e un tempo ricchi di pesci. Abbondava il formaggio di pecora  o di capra, dato che molte zone erano adibite al pascolo.

 

 

A tavola con gli antichiultima modifica: 2007-07-24T23:08:06+02:00da manphry
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