Yerzy Pilch

Tra le opere degli scrittori polacchi contemporanei (o post moderni) ho avuto modo di leggere, da poco tempo tradotto in Italia, il romanzo di Jerzy Pilch   Sotto l’ala dell’angelo forte ( titolo originale Pod Mocnym Aniołem), Fazi editore, Roma 2005.

Juruś, il protagonista della storia, è uno scrittore conosciuto e apprezzato, costretto a ricorrere spesso al ricovero in ospedale nel reparto degli alcolisti cronici. Anche in preda al delirio alcolico Juruś controlla la sua creazione letteraria, tra il diario e la confessione. La sua storia si intreccia con quella di altri personaggi del reparto degli alcolisti cronici. E sono tutte storie di personaggi decaduti; avevano, in un passato non lontano, un ruolo sociale, che oggi non viene più ad essi riconosciuto, o, meglio, che essi non ritrovano più: Colombo lo Scopritore, nella vita quotidiana professore di scienze sociali, l’Eroe del Lavoro Socialista, attempato operaio della fonderia Sendzimir, Simone il Buono, nella  vita studente di Legge, Don Giovanni Ziobro, nella vita parrucchiere e pure musicista, la regina di Kent, nella vita dottoressa in Farmacia, il Re dello Zucchero, nella vita facoltoso imprenditore, il Terrorista più Ricercato del Mondo, nella vita camionista che portava la frutta all’Est, ed altri ancora, quando nella vecchia Polonia, prima della caduta del Muro di Berlino, non c’era divisione tra deliranti, schizofrenici o suicidi. E Juruś, destinato alla sua fine di alcolista, ritrova invece in Alberta Lulaj colei che riesce a indicargli una via di uscita. “Il mio merito –afferma il protagonista alla fine della storia- è stata la mia disperazione, il mio merito sono state le preghiere  e il mio merito è stato l’amore”.

Dall’Angelo Forte è il nome di una locanda  vicino al palazzo dove dimora Juruś. Il nome della locanda non è scelto a caso; quel nome, infatti, richiama il testo sacro dell’Apocalisse 5, 1-3: “E vidi un angelo forte che gridava a gran voce: Chi è degno di aprire il libro e di sciogliere i sigilli? Ma nessuno né in cielo, né sulla terra, poteva aprire il libro, né guardarlo”. La dimensione umana del protagonista del romanzo, viene recuperata in una sorta di lirismo quando l’apocalittico Angelo Forte diventa una costellazione: “Il mio sguardo trapassava il soffitto, il mio sguardo trapassava tutti i solai e tutti i soffitti sopra il mio soffitto e oltrepassava l’aria scura sopra Cracovia e sopra Varsavia e passava attraverso lo strato di nuvole basse e lo strato di nuvole alte, e passava attraverso il cielo azzurro e il cielo blu e arrivava alle sfere nere, e nei cieli neri come la Smirnoff nera o il nero Johnnie Walker vidi le galassie. Vidi di nuovo la cometa sul monte Czantoria e vidi di nuovo la costellazione dell’Angelo Forte”

La scansione temporale degli avvenimenti può richiamare alla mente la giornata del moderno Odisseo di J. Joyce. Lo scrittore irlandese, nel suo romanzo, sottopone la realtà e la società a un costante processo di esasperazione e insieme di dissolvimento. Finché la storia costringe l’uomo e i suoi atti e i suoi pensieri, egli è un prigioniero, che per sentirsi vivere nella propria dimora intrinseca deve scegliere la sorte dell’espatriato, dell’errante, del naufrago. Pilch sceglie la strada dell’ebbro, dell’alcolizzato.

A considerare i personaggi di questo romanzo, tutti estratti dai bassifondi dell’alcol, sembra che della civiltà letteraria non sopravviva che l’originaria barbarie nelle sue radici caotiche e prelogiche. Nel romanzo i personaggi tentano di fuggire davanti le forze inumane della società di rifugiarsi nell’universo della coscienza individuale, un universo occulto e apparentemente autonomo e immune dalle influenze esteriori. Questa distruzione del personaggio umano implica necessariamente la distruzione del romanzo come tale e della letteratura. “Voglio dare una letteratura che liberi dalla debolezza e sia forte come i canti natalizi di Don Giovanni Ziobro”. “Adesso che ho la chiara consapevolezza della fine della letteratura, adesso per amore della verità reitero questa congiunzione a effetto”. “I prototipi dei personaggi sono diventati cenere, di loro non è rimasto più nulla, perché o in loro non c’era niente, o erano troppo infiammabili, che in definitiva è la stessa cosa. Sono bruciati tutti i miei raffinati quaderni a righe senza margine, si è bruciato l’archivio delle idee che avevo in testa, la letteratura è finita. Ho terminato di scrivere il trattato sul vizio, o forse ho perso la voglia di scrivere sul vizio: riuscivo a pensare solo a te. La mia testa il mio cuore si sono riempiti di un sentimento intenso, cosa che non pensavo potesse accadere. Se l’amore è tutto ciò che esiste, come chiamare la nostra sovraesistenza?”. “O forse mi è successo lo stesso che a Marcel Proust. Pourquoi pas?…

il tempo perduto del protagonista è il tempo ritrovato del narratore; nel mio caso è quasi lo stesso: io, il narratore Juruś, non solo ritrovo il tempo perduto del protagonista Ubriacone, ma ritrovo pure quello che lui, inutilmente, cercava dalla prima frase. E anche il tempo sprecato e bevuto degli altri personaggi. Tra me e i miei personaggi a volte ci sono differenze molto piccole. (Nessuna contraddizione con un altro passo di questo poema). Persino tra me e me ci sono piccole sottigliezze, forse per questo è addirittura il contrario: forse l’Ubriacone è il narratore e Juruś cerca invano l’ultimo amore prima di morire e in definitiva uno non può fare nulla all’altro”.

Yerzy Pilchultima modifica: 2007-07-14T17:31:56+02:00da manphry
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