Poetesse latine

Provate a chiedere ad uno studente liceale che si appresti a sostenere gli esami di Stato (  tempo fa si diceva di maturità) il nome di una poetessa latina. Resterà quantomeno interdetto non sapendo se dire un nome, a caso, o confessare  candidamente di  non conoscere l’argomento. Questa volta non ci sarà nessuna colpa da addebitare a questo o a quello (voglio dire allo studente o al professore) perché nella letteratura latina non abbiamo poetesse.  I poeti latini hanno scritto versi in onore delle donne,  tanto da assicurare ai loro nomi una fama imperitura; ma nessuna donna ha avuto il piacere di vedere la propria  voce  raccolta, si fa per dire, e pubblicata. Le gioie, i dolori, gli amori delle donne ce li hanno raccontati gli uomini.

Eppure sembra impossibile che in un universo così vario e variegato come il mondo latino non abbiano avuto voce poetica le donne. Forse siamo stati noi, cioè quelli venuti dopo, che non abbiamo correttamente letto nelle opere degli autori classici.

E’ il caso di Sulpicia, poetessa romana contemporanea del poeta Tibullo. Le poesie, che vanno sotto il nome di Tibullo, sono giunte a noi in una collezione di tre libri (Corpus Tibullianum), che, per scelta di alcuni editori del Rinascimento, sono diventati quattro con la suddivisione del terzo in due parti distinte.

Il Liber quartus presenta  ingarbugliate questioni di attribuzione. Inizia con il Panegyricus Messallae, un  elogio di M. Valerio Messalla Corvino in occasione del suo consolato, e, quindi, databile al 31 a.C., attribuibile a Tibullo. Seguono le cinque elegie per Sulpicia e le sei brevi elegie di Sulpicia. E’ questo un ciclo di carmi sugli amori di Sulpicia,  che si distingue in due gruppi. Nel primo troviamo cinque brevi elegie che celebrano gli amori di Sulpicia e di Cerinto. Nel secondo sono raccolti sei componimenti della poetessa Sulpicia che confessa, con sincerità e senza finta modestia, una passione ardente per Cerinto, il suo amante.

La possibilità che Sulpicia fosse la vera autrice delle poesie, e quindi  una donna in carne ed ossa, era stata scartata o almeno mai presa seriamente in considerazione da tempo immemorabile.

Come  si poteva accettare che una donna potesse  trattare argomenti amorosi in modo così apertamente appassionato?  E  così per secoli di Sulpicia poetessa nemmeno a parlarne. Fino a quando Otto F. Gruppe, filologo e poeta, nato a Danzica nel 1804 e morto a Berlino nel 1876, non pubblicò i due volumi di Die romische Elegie, dove ritrovò l’espressione del “latino femminile”. Ed Ettore Bignone sostiene che “raramente la poesia romana ha avuto accenti così spontanei e appassionati come in questi versi” di Sulpicia.

Pochi anni fa in Inghilterra andarono tutti pazzi per Sulpicia, grazie al poeta inglese John Heath-Stubbs (1918-2006) che aveva  tradotto e pubblicato nel 2000 Poems of Sulpicia (Hearing Eye–London) affermandone ancora una volta l’autenticità e l’attribuzione a questa donna romana di duemila  anni fa, che scriveva poesie alla maniera dei poeti alessandrini: una quarantina di versi, nei quali la poesia latina dà prova di spontaneità e passione.

Per questo motivo gli studiosi hanno avanzato delle ipotesi verisimili. Doveva essere la figlia di Servio Sulpicio Rufo (ca. 81-43 a.C.) e nipote di  Messalla Corvino. E’ probabile che Sulpicia appartenesse proprio al circolo letterario di M. Valerio Messalla Corvino, di cui faceva parte lo stesso Tibullo; circolo letterario che alle vicende politiche e alle armi preferiva la musa mondana ma anche quella campestre. Chi fosse Cerinto non si sa.

Le poetesse latine non finiscono qui. Senza scomodare un’altra Sulpicia vissuta nell’età di Domiziano e della quale ci rimangono solo due versi, si deve alla felice intuizione di Eva Cantarella la scoperta di un’ altra poetessa, questa però anonima. Perché il testo è una iscrizione parietale, e fa parte  di quella che è stata definita la “letteratura di strada”, cioè quelle parole tracciate un poco ovunque dagli antichi romani sui muri delle case lungo le strade delle città

A Pompei fu trovata una iscrizione contenente dei versi (CIL, IV 5296) che l’ illustre studiosa attribuisce al “punteruolo” o al più semplice “chiodo” di una donna.

Poetesse latineultima modifica: 2007-07-12T02:51:27+02:00da manphry
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