Sbariare

 

Mi ritorna in mente una simpatica boutade di Renzo Arbore, che in uno spettacolo televisivo di molto tempo fa, alla sua maniera, improvvisò questa simpatica etimologia del verbo napoletano “sbariare”: andare di bar in bar, cioè passare da un bar all’altro. In effetti  “sbariare”, nel  dialetto campano in genere, sta a significare distrarsi da un impegno, da un’attività, distogliere  da qualcosa. Bisogna anche aggiungere che “sbariare co a capo” vuol dire farneticare, dire cose a sproposito o a vanvera.

Il collegamento, metaforicamente parlando,  del verbo “sbariare” con il bar, non è poi tanto azzardato. Si pensi un poco alla vita quotidiana nei nostri paesi: andare al bar (o come si diceva una volta, al caffè) è un modo per sottrarsi, anche momentaneamente, alla routine dello stare in casa. Per molte persone è quasi  un bisogno a cui non ci si può sottrarre.

 

E’ accaduto che il mese di luglio scorso un bar del mio paese, in provincia di Avellino, chiuse i battenti. Nulla di strano: gli esercizi commerciali  come possono  avviare l’attività, possono anche farla cessare. Ma per i clienti abituali è stato un “dramma”; non avevano più il luogo dove  potersi incontrare e “sbariare”.  Se poi vogliamo scomodare l’antropologia, si può dire con Marc Augé che  il bar del paese è un “luogo”; esso, infatti, è “identitario, relazionale e storico”. E così il filosofo francese precisa il senso dell’ultimo dei tre aggettivi da lui indicati: “Storico, il luogo lo è necessariamente dal momento in cui, coniugando identità e relazione, esso  si definisce a partire da una stabilità minima. Lo è nella misura in cui coloro che vi vivono possono riconoscervi dei riferimenti che non devono essere oggetti di conoscenza”.

Dopo il terremoto del 1980 sono stati costruiti nei nostri paesi dei centri sociali o di comunità. L’idea era quella di creare dei luoghi dove la gente del paese quotidianamente  potesse incontrasi. Oggi possiamo dire,  dopo più di trent’anni da quella calamità, che l’utilizzo di questi centri, se si escludono i meeting organizzati,  è a dir poco sporadico. I luoghi nei nostri paesi continuano ad essere quelli  della tradizione. E i bar rimangono i punti di riferimento per la vita sociale come nel passato i caffè o le cantine.  

Ogni bar del paese ha il suo territorio di competenza. Anche se non hanno legami di amicizia, i clienti si riconoscono,  sanno di far parte di “un luogo”. E quando uno di questi esercizi pubblici dovesse chiudere,  essi trovano difficoltà a frequentarne un altro.  Sembra quasi uno sconfinare in altro territorio, il che vuol dire sempre attirarsi addosso qualche diffidenza; soprattutto se la linea di demarcazione ha un significato politico amministrativo, come accade nei piccoli centri.

I nomi di alcuni proprietari  di bar dei nostri paesi sono diventati “storici”. La tradizione orale ne ha conservato il ricordo, perché hanno legato il loro nome a dei “luoghi”. Si è tramandato nel mio paese anche il nome di una donna, Serafina, che gestiva insieme col marito il bar un tempo esistente nella parte alta dell’abitato. 

Le donne bariste ci sono state e ci sono nei nostri paesi, ma i bar in genere  sono luoghi “maschilisti”. Altro che pari opportunità!  Un gelato, una pasta… e poi subito via. Nessun pregiudizio, ma ci si sente (le donne)  come spaesate.

Finalmente dopo alcuni mesi il bar ha riaperto i battenti. La piazza ha ripreso a vivere la sua vita di paese; gli amici si incontrano di nuovo. Quel luogo che aveva per qualche tempo perduto la sua identità, ora l’ha ritrovata.

 

                                                    Virgilio Iandiorio

 

 

 

Sbariareultima modifica: 2011-11-27T15:35:02+01:00da manphry
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