Noi e la Guerra del Peloponneso

Iniziano tutte così, le fiabe: c’era una volta… Il narratore sa come la storia andrà a finire; ma il lettore, no. Così gli storici del passato, che ci hanno narrato vicende di tempi a loro precedenti: sapevano bene come era andata a finire, prima ancora di mettere la penna sul foglio. E a noi quelle letture possono anche non insegnare niente, ci fanno, però, intravvedere come potrebbero andare a finire le cose dei giorni nostri. E gli antichi credevano nelle premonizioni.

Durante la guerra del Peloponneso, tra Atene e Sparta (431-400 a. C.), gli ateniesi decidono di portare la guerra in Sicilia, e partono con una flotta ben equipaggiata di uomini e mezzi. ” Gli Ateniesi – scrive Tucidide- vollero di nuovo navigare verso la Sicilia e avevano intenzione di assoggettarla se potevano… la maggior parte di loro ignorava la grandezza dell’isola e il numero degli abitanti”.

Verrebbe da pensare ai giorni nostri, quando le intenzioni di chi governa  non bastano a coprire l’ignoranza dei problemi che si affrontano.

Continuiamo col racconto di Tucidide. In Atene non c’è accordo sulla decisione di invadere la Sicilia (415-413 a.C.). Nicia, infatti, che potremmo dire con terminologia moderna , capo del partito conservatore, si oppone. All’assemblea dichiara:” E di fronte al vostro carattere il mio discorso sarebbe debole se vi esortassi a conservare quello che avete già e a non rischiare la perdita di ciò che è a vostra disposizione per ottenere dei vantaggi incerti e futuri: ciò che vi mostrerò è che né è opportuno il vostro ardore, né è facile conquistare quel che bramate”. E ancora:” Io, vedendo ora qui seduti codesti giovani, esortati ad appoggiare questo stesso uomo (Alcibiade), ho paura ed esorto a mia volta i più anziani a non vergognarsi di dare un’impressione di viltà se non voteranno per far la guerra; e li esorto a non concepire uno sciagurato desiderio -come potrebbe esserlo per i giovani stessi- di guadagni lontani: sappiano che pochissime imprese hanno successo grazie al desiderio”.

Dall’altra parte c’è  il partito, che, sempre utilizzando definizioni odierne, potremmo definire dei populisti, favorevoli alla spedizione:” Questi sono i rapporti -dice Alcibiade nell’assemblea- che la mia giovinezza e la mia “follia”, considerate contrarie alla natura di un uomo equilibrato, hanno instaurato con le potenze del Peloponneso”.

Alla vigilia della partenza della flotta, accade un fatto inquietante, il danneggiamento delle statue di Ermes nelle strade e nelle piazze di Atene. Sacrilegio e  male augurio.

Se sostituiamo con  nomi  di oggi  quelli riportati da Tucidide, il risultato sarà lo stesso. La spedizione fu un disastro totale per Atene, che perse uva acino e paniere.

Nello scontro  con Alcibiade, non esce vincitore Nicia: la sua opposizione alla guerra in Sicilia ricalca fedelmente  la logica bellicista del suo avversario, perché non porta fino in fondo la logica del pacifismo. Nicia, infatti, “rendendosi conto che con gli stessi argomenti non avrebbe più potuto distogliere (gli Ateniesi), ma pensando che forse avrebbe potuto far loro cambiar idea con la qualità delle forze militari, se avesse insistito perché fossero imponenti”, spera di accattivarsi le simpatie  chiedendo  il potenziamento dello sforzo bellico. Quasi a dire: se si deve fare la guerra, facciamola senza badare a spese!

Atteggiamento di chi ritiene, ieri come oggi, di fare opposizione cercando di rincarare la dose sulle proposte degli avversari. Come nella scena del film di Totò, quando vende la Fontana di Trevi: i due acquirenti giocano al rialzo.

Virgilio Iandiorio

Noi e la Guerra del Peloponnesoultima modifica: 2018-11-23T17:33:53+01:00da manphry
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