Il 19 febbraio la frazione San Barbato di Manocalzati (Avellino) festeggia il santo da cui ha derivato il nome. Unico comune nel Mezzogiorno, se consideriamo che centocinquanta anni fa San Barbato era comune autonomo, a fregiarsi del nome del santo vescovo di Benevento, che convertì nel VII secolo i Longobardi del capoluogo sannita al cattolicesimo.
In genere la storia di un paese è una storia raccontata quasi tutta al maschile, in esse le donne compaiono di scorcio e fugacemente, quando vi appaiono. Anche la storia della frazione San Barbato è una storia di feudatari, di compravendite, di testamenti e di qualche fatto d’arme o di furfanteria. Eppure basterebbe guardare le due fontane, ai piedi e al lato del borgo, che per secoli hanno dato l’acqua agli abitanti del posto, e non solo a questi, per “rivedere”, come in un film, le donne che attingono l’acqua o che lavano i panni. Se guardiamo i relitti delle stradine in terra battuta, le cosiddette cupe, che si inerpicano dalla valle alla sommità del colle, come non pensare alle tante contadine che quotidianamente vi passavano facendo la spola tra la casa e il campo da coltivare, portando sulla testa ceste cariche di ortaggi, di frutta, di legna da ardere.
Nei pochi documenti superstiti , riguardanti l’antico castello, qualche nome di donna si è conservato. Una prima attestazione di donne di San Barbato, il paese, troviamo in un documento del 1157 (Codice Diplomatico Verginiano) rogato proprio nel “castrum“. Si tratta di disposizioni testamentarie di Doferio di San Barbato, il quale in punto di morte si riconcilia con tutti quelli a cui aveva arrecato danno e molestie. Tra gli altri destinatari delle sue volontà, c’è la sorella Sichelgarda, badessa del monastero di San Paolo in Avellino; ma anche Orania, sua madre, alla quale restituisce la quarta parte dei beni ereditati dal padre Malfrido; all’altra sorella, anch’essa di nome Orania, riconosce il diritto di prelevare 700 romanati (dal nome degli imperatori, dai quali furono emessi, le monete dell’Impero d’Oriente si dissero costantinati, michelati,romanati ecc.) che il genitore le aveva assegnato. Doferio, signore di San Barbato, lascia la moglie, di nome Basilia, e una figlia, Sichelgarda il suo nome, alla quale bisognerà provvedere per la dote in caso di matrimonio. Sichelgarda, Basilia, Orania questi i nomi delle donne di San Barbato, che compaiono per la prima volta in un atto ufficiale di circa mille anni fa.
Con questa “cartula dispositionis” di Doferio siamo in pieno regno normanno, ma l’ eredità longobarda si sente nei nomi e nelle norme giuridiche in essa riportate. Come non pensare ai termini tecnici longobardi attinenti alla situazione giuridica e patrimoniale della donna. Il Metfio in particolare è un istituto inteso a salvaguardare i diritti patrimoniali della donna al momento in cui lascia la famiglia d’origine per entrare col matrimonio a far parte di un’altra. Il faderfio è, invece, la ‘dote’ assegnata dalla famiglia d’origine alla sposa, talora comprensiva anche della sua parte di eredità; il morgingab stabiliva l’assegnazione alla sposa da parte dello sposo, il giorno dopo la celebrazione delle nozze, di beni mobili e immobili, fino ad un massimo della quarta parte del patrimonio totale dello sposo.
Paolo Diacono annota nella sua storia dei Longobardi che le loro donne si dimostravano fiere di fronte alle donne romane perché esse erano più prolifiche. Le donne longobarde possedevano delle sicure conoscenze ginecologiche: nel corso di un parto, sapevano girare il feto. Esse riuscivano a ridurre i rischi connessi alla natalità. Sapevano risolvere una lussazione, predisporre delle buone fasciature in caso di fratture, di contusioni, e anche intervenire chirurgicamente sugli animali nella delicata zona del cranio.
Passano i secoli, e il castrum Sancti Barbati conserva la sua autonomia, cambierà possessori, ma non sarà mai aggregato a feudi vicini. E anche quando con la fine della feudalità, furono aboliti tutti i diritti connessi con questo medievale istituto, i legittimi titolari del titolo di barone di San Barbato, andarono fieri di portare questo nome. E troviamo ancora una volta il nome di una donna, Maria Teresa Capialbi, di nobile famiglia di calabrese, sposa di Benedetto Patroni Griffi, erede del titolo di Barone di San Barbato, e per questo Baronessa di San Barbato anche lei. La Baronessa Maria Teresa Capialbi (nata a Vibo Valentia l’8 maggio 1882 e morta a Formia il 14 luglio 1964) non venne mai a San Barbato, ma pur restandone lontano sentiva il fascino di questo antico castello e ha voluto che sulla sua tomba fosse ricordato a chiare lettere il suo antico titolo nobiliare. Il marito della Baronessa Capialbi, Benedetto Patroni Griffi, invece, a San Barbato è venuto una volta negli anni Venti del secolo scorso, certamente dopo la conclusione della prima guerra mondiale. Chi abbia incontrato in quell’occasione il barone Benedetto, che cosa abbia potuto visitare dell’antico castello, non sappiamo; di sicuro possiamo dire che marito e moglie hanno trasmesso ai discendenti, in particolare a Massimo Patroni Griffi duca di Roscigno e Barone di San Barbato, l’affetto per il luogo che a loro ha affidato il nome.
VIRGILIO IANDIORIO