Pompeo e la libertà

Ci sono delle letture che ti spingono a riflettere non una, ma più e più volte. Da quando ho letto la vita di Pompeo, scritta da Plutarco, mi ritorna spesso nella mente l’episodio che precede  la morte del “grande” romano:

 “Pompeo salutò dunque Cornelia, che piangeva prima del tempo la sua fine, e ordinò di andare con lui sull’imbarcazione a due centurioni, a Filippo, uno dei suoi liberti, e ad un servo di nome Scita, e mentre già dalla barca Achilla [suddito della corte di Tolomeo XIII] gli tendeva le mani, egli si rivolse alla moglie ed al figlio e recitò i versi di Sofocle: Chiunque sale le scale della casa di un tiranno,  le discenderà da servo, anche se vi sia entrato da libero”.

Sono proprio questi versi di Sofocle, di una sua tragedia a noi non pervenuta, che mi intrigano ogni qualvolta li rileggo. Soprattutto in tempi come i nostri, dove salire e scendere le scale di “tiranni” è diventato quasi un esercizio ginnico. Forse non sarà filologicamente corretta la mia interpretazione, ma i versi di Sofocle per me suonano come una maledizione per tutti quelli che hanno un contatto, anche di breve durata o di poca consistenza, con chi detiene il potere.

In due versi il grande tragediografo greco usa tre termini significativi: tyrannos, doulos, eleutheros.  Con il termine  “tiranno” i greci esprimevano il modo, senza limiti di legge, come una persona avesse raggiunto il potere  e non tanto come lo  esercitasse; ma non ci volle molto tempo perché questa parola assumesse il senso dispregiativo che noi le diamo. Il doulos era propriamente lo schiavo nato, non chi era fatto schiavo.   In greco il verbo douleuo (compiere il servizio dello schiavo), e il corrispondente sostantivo doulos (schiavo, servo) hanno un’ accezione negativa. La libertà personale per i greci era il bene supremo.

Nell’antico oriente invece il re  era considerato il padre e signore assoluto di tutti i suoi sudditi;  i  ministri e i plenipotenziari  erano considerati suoi douloi in quanto  dipendenti dalla sua volontà . Doulos, in questo contesto, diventava un titolo onorifico.

Nel Nuovo Testamento spesso viene usato il termine doulos per indicare coloro che Dio ha scelto per realizzare i suoi disegni. E  Paolo si autodefinisce doulos di Cristo (Rom. 1,1) e dichiara che Cristo stesso “ha assunto la natura di servo” (Fil. 2,7) essendo in tutto “obbediente al Padre” (cfr Fil. 2,8).

Eleutheros significa libero, l’opposto di doulos. Gli anglosassoni hanno due parole per dire libertà: freedom e liberty. La prima significa assenza di restrizioni  rispetto a determinate leggi o regole sociali, la seconda indica la possibilità dell’individuo di disporre di sé.

L’aggettivo “libero” e il sostantivo  “libertà”   sia nella radice indoeuropea leuth o leudh (da cui eleutheria e libertas, ma anche lieben, lief, love), sia nella radice sanscrita frya (da cui freedom

inglese Freiheit tedesco, e anche friend, Freund, affetto, amicizia), richiama un’esperienza

umana che ha a che fare con una crescita relazionale che avviene in comune, con un

qualcosa che aggrega, accomuna, che rende partecipi gli uni e gli altri ad un comune

destino. Per questo   una forma possibile di libertà può aversi  all’interno di una relazione interpersonale, cooperativa o competitiva che sia, fondata sulla fiducia e sull’affidamento reciproco. [E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, trad. it., Einaudi 2000 vol. I, pp. 247-256; R.B. Onians, Le origini del pensiero europeo, trad. it., Adelphi, Milano, 1998, pp. 271-278.  ]

 Nella lingua latina pragmatismo, realismo, ma soprattutto pietas, dipendenza e appartenenza alla divinità,  conducono alla pax deorum, condizione essenziale per la salvezza dello stato. L’uomo romano era un contadino,  e anche le etimologie delle parole che usa ci riportano alla terra. Le divinità romane avevano con gli uomini un rapporto di paternità: la divinità suprema era Juppiter

(Giove padre). All’idea di paternità era legato il concetto di patrizi (quasi i padri del popolo) e di libertas, che era la condizione dei liberi, cioè dei figli (liberi,-orum significa figli).

Una concezione tutta romana della libertà possiamo trovare nell’aggettivo “ingenuus”. Questo aggettivo è formato da in (dentro) + gen- , radicale di origine indoeuropea  che significa “generare, nascere” (cfr. gigno, geno, genus, genuinus, gens ecc.)  “che nasce dentro” (inborn dell’inglese), perciò, “nativo, naturale”. Dall’accezione di “nato libero” a quella di “degno di un uomo libero” il passaggio è stato breve, per cui ingenuus ha assunto anche il significato di “nobile, onesto, sincero”: le artes ingenuae erano le “arti liberali”, cioè dell’uomo libero. I latini traducevano con libertas la parola greca parresia, che letteralmente vuol dire “parlare con libertà”, parola che troviamo ancora in San Giovanni Crisostomo (quinto secolo d. C.), ma per l’ultima volta; perché successivamente di essa si son perse le tracce.     

 

Pompeo e la libertàultima modifica: 2010-12-07T14:37:05+01:00da manphry
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