La speranza in fondo al mare. Racconto

“Come ti chiami?” chiese il giovanotto al ragazzo che gli stava incollato vicino. “Mi chiamo Najeeb”, gli rispose con un filo di voce, come per non disturbare gli altri passeggeri del barcone, addossati gli uni agli altri, stretti quasi da non poter respirare. Najeeb indossava un maglione di colori indistinti, ma abbastanza utile per proteggersi dal freddo della brezza marina, su quella barca rabberciata. I suoi occhi, però, lasciavano trasparire sentimenti contrastanti: non si capiva se era la speranza di una dimensione umana da ritrovare o il rancore per qualcosa che veniva come repressa nel suo animo.
Era già da un’ora che navigavano in mare aperto. Il barcone che trasportava tanta gente di ogni età, maschi e femmine, aveva lasciato la spiaggia di Sirte quando già era calata la notte. Protetti dall’ oscurità il viaggio verso l’isola di Lampedusa doveva risultare più tranquillo.
“E il tuo nome?” chiese Najeeb al giovanotto che per primo gli aveva chiesto il suo. “Il mio nome è Qasim. Sono di Sirte, come te probabilmente”. Di statura bassa, Qasim aveva nei suoi lineamenti l’aspetto di una persona già adulta, come se avesse quasi saltato a piè pari l’ adolescenza. I due non sapevano cosa altro chiedersi, perché quello che stavano vivendo non lasciava molte domande né alla fantasia né ai sentimenti.
Tutte le sante sere le spiagge più appartate di Sirte si riempiono di gente, in attesa di imbarcarsi su queste “bagnarole” che clandestinamente traghettano tanta gente da una sponda all’ altra del mare Mediterraneo, dalle coste della Libia a quelle della Sicilia, o meglio di Lampedusa.
Stranamente il mare in quel momento era calmo, perché anche in primavera, nella bella stagione, possono levarsi all’ improvviso dei venti impetuosi. Sul barcone La gente, che era tanta, non parlava per niente; si potevano ascoltare le onde che sbattevano ai fianchi dello scafo quasi ritmando. Quella notte solo il mare aveva una voce.
“Najeeb perché anche tu sei partito? sei con la tua famiglia?” gli domandò Qasim. Evidentemente l’età del giovane compagno di viaggio, forse tredici anni, l’aveva colpito.
“Sono da solo. Perché non ho più nessuno. Abito anche io a Sirte”. “Scusami –replicò il compagno-, ma qui siamo tutti soli. Abbiamo lasciato la nostra casa, la nostra città, la nostra famiglia; ma cosa sarà della nostra esistenza di qui appresso nessuno può dire. Allah kerim!
“Hai tu i genitori, fratelli, sorelle? Chiese ancora Qasim.
La commozione traspariva dal volto del ragazzo, e rispose con qualche singulto che accompagnava le parole.” Mia madre, Amina, è morta due anni fa. Una leucemia terribile. Mio padre, Saad, è morto l’anno seguente per un incidente d’auto. Abbiamo una modesta e piccola abitazione a Sirte, dove vivevo con mio fratello maggiore, Salem. Eravamo rimasti soli, io e lui”.
“Perché dici eravamo rimasti? Non c’è più, nemmeno lui? “ insistette il giovane.
“Proprio così!” affermò Najeeb.
Il ragazzo era stato toccato nel suo intimo. Alla sua mente si affacciavano tante immagini, tanti tristi ricordi. La sua adolescenza era stata come tradita. Nemmeno il fratello lasciargli!
“Ma tuo fratello, quando è morto? come è accaduto? Chiese commosso Qasim
“Il mese scorso –riprese Najeeb- per questa maledetta guerra, che non ci dà tregua. Un pomeriggio mentre ritornava a casa, nella strada vicino a dove abitiamo: lui fa il venditore ambulante. Un’esplosione. Un palazzo crolla giù. Mio fratello accecato dal fumo della polvere che si sollevava come un denso fumo è stato travolto dai muri che si sbriciolavano e cadevano giù con un tonfo di distruzione e di morte”.
Il tempo trascorreva con monotonia. Se non fosse stato per qualche vagito di bambino, sullo scafo sembravano tutti ammutoliti. Accostati così gli uni agli altri come acini di pigna d’uva matura, ognuno guardava il suo cielo e nella mente rimuginava qualcosa.
“Qasim, provi rimpianto a lasciare il paese? Chiese Najeeb, una domanda dettata dalla curiosità adolescenziale o dalla voglia di riempire il tempo, che in silenzio trascorre sempre più lungo, quasi rallenti la sua scansione.
“No! nessun rimpianto –rispose il compagno-. Quando abbiamo lasciato la banchina non mi sono nemmeno girato a guardare la mia, la nostra città, che si allontanava. Guardavo davanti a me. Ma non vedevo che cielo e mare. E niente più. La mia vita è un poco simile alla tua, anche se io sono più grande di età di te; ma solamente di pochi anni, che ti credi”.
“Tu che sei più grande di me,- riprese nuovamente Najeeb-, dimmi che cosa accadrà a noi quando saremo giunti in qualche porto, o da qualche parte?
“ A me –rispose il compagno- piacerebbe fare il DJ, il disc jockey. A casa, quando potevo ascoltavo la musica, quella che viene dall’ Europa e sognavo. Tu sai che le canzoni, quelle belle, fanno sognare; e poi immaginavo di trovarmi in mezzo a tanti giovani e guidare con la mia musica i loro balli. E tu?
“Io vorrei fare il cuoco, lo chef in ristoranti famosi. Io ero sempre in cucina con mia madre e imparavo da lei a preparare qualche pietanza. Le prime volte ero un disastro, ma poi ho imparato. E mio fratello spesso mi chiedeva di cucinare qualcosa per lui. Cose semplici, che credi!
Chi sa quante cose simili passavano per la mente di quella gente ammassata lì, sul barcone che li trasportava verso l’ignoto. Perché dove sarebbero giunti non c’erano i familiari che li attendevano con impazienza, come è accaduto e accade per chi si allontana per periodi brevi o lunghi da casa per lavoro o altri affari. Costoro hanno la certezza di poter fare ritorno a casa loro quando vogliono, sicuri di ritrovare l’affetto della famiglia. Questo fa la differenze tra i viaggi di chi ha casa e famiglia e la traversata di Najeeb e i suoi compagni ammassati sul barcone, che hanno solo se stessi e la loro voglia di vivere.
Uno scricchiolio si avvertì all’ improvviso nel fasciame della barca. Il beccheggio era più forte e accelerato. Tutti si guardavano in faccia, cominciavano a spaventarsi. Avevano visto e sentito chissà quante volte alla televisione la sorte amara toccata a tanti altri che, come loro quella notte, avevano tentato simile avventura.
Chi guidava la barca cominciò a gridare di non fare movimenti, di non muoversi dal posto:” Perché il peso deve essere ben distribuito. Se vi addossate tutti da una parte, la nave si mette su un fianco, e questo significa che affonderemo certamente!
L’acqua del mare cominciava a salire dalla stiva. Era nella carena, infatti, che si erano aperte delle falle, nessuno saprà mai per quale motivo. Ma con un mezzo di navigazione tenuto insieme quasi per scommessa, cosa ci si poteva aspettare. Bastava un niente per aprire falle in quella bagnarola, chissà quanto vecchia ma certamente troppo malandata.
Le mamme stringevano al petto i figlioletti. Najeeb e Qasim stavano attaccati a delle assi di legno del parapetto. Le urla di quella gente cominciavano a levarsi anche violente e arrivavano alle stelle che in cielo quella notte brillavano come non mai, perché le lacrime negli occhi di tutti loro quasi ne rifrangevano la luce.
I due compagni si erano stretti ancora più vicini. Volevano parlare dire altre cose, sognare il DJ e lo chef. Ma l’acqua ormai era alla gola. “Abbiamo lanciato il segnale di aiuto –disse il capitano della bagnarola- Arriveranno presto le navi in nostro soccorso. Saremo tutti tratti in salvo. Non abbiate paura”.
Le parole di rassicurazione contraddicevano la realtà. L’acqua continuava a salire e la barca calava verso il fondo del mare lentamente ma inesorabilmente. I due compagni si guardarono negli occhi e sorrisero alla morte che stava sopraggiungendo.
Il mare Mediterraneo li accolse nel suo grembo, come solo questo mare sa fare non da ora ma da sempre, da quando gli uomini si avventurarono per la prima volta a navigarlo.
Virgilio Iandiorio

La speranza in fondo al mare. Raccontoultima modifica: 2016-02-24T19:32:45+01:00da manphry
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